OTTOBRE
Ieri pioveva quasi con cattiveria. Con il vento e i lampi come in un temporale estivo, di quelli che non vedi l’ora perché muori di caldo. Quelli che già quando li intravedi all’orizzonte, grigi e minacciosi, ti riempiono il cuore della speranza di un brivido. Ma anche di un arcobaleno.Oggi splende il sole. Ho il mio cappottino ocra che fa autunno, una camicia giappo con i fiori di ciliegio che fa primavera, l’inverno in due anfibi che mi fanno stare con i piedi per terra. Mi manca l’estate. Ma ho i piedi per terra, so che non è estate. Non più leggerezza, giornate lunghe, cose di cui in fondo e senza vergogna provo nostalgia. Tranne il caldo.Paesaggi veri e immaginati hanno smesso di confondersi e sovrapporsi.Ottobre deve ancora trovare una chiave. Basta tramonti e foglie. Basta ricami d’autunno e castagne Questo Ottobre non ha ancora identità. Somiglia ad un adolescente in bilico sul filo, un funambolo che non può tornare indietro nella fanciullezza e non vuole proseguire, diventare adulto. Sotto di lui c’è un precipizio attraente, dove tutto è sempre possibile, il tempo è curvo e lo spazio infinito. Sono brava con le suggestioni quando non so dare risposte originali. È un arrampicarsi sugli specchi. Magari arrivando in cima (allo specchio) si vede cosa c’è dall’altra parte.
L’autobus si era fermato in Via Lambrakis e lei aveva sollevato lo sguardo dal libro che stava leggendo. Un libro che ancora non esisteva. L’autista aveva spento il motore e si era messo a parlare al cellulare, in un dialetto incomprensibile. Intorno c’era la periferia industriale con i capannoni di cemento armato. Le era venuto in mente un racconto delle Favole al Telefono, di Rodari. Il Filobus numero 75, che si ribellava al conducente e portava tutti i passeggeri in aperta campagna, invece che al lavoro, regalando loro un tempo inaspettato e felice. Trascorsa una dozzina di minuti l’autobus era ripartito. Lei era rimasta imprigionata nelle pagine del libro che non esisteva, sospesa tra un punto e un a capo. Come un personaggio in cerca d’autore.
L’autobus si era fermato in Via Lambrakis e lei aveva sollevato lo sguardo dal libro che stava leggendo. Un libro che ancora non esisteva. L’autista aveva spento il motore e si era messo a parlare al cellulare, in un dialetto incomprensibile. Intorno c’era la periferia industriale con i capannoni di cemento armato. Le era venuto in mente un racconto delle Favole al Telefono, di Rodari. Il Filobus numero 75, che si ribellava al conducente e portava tutti i passeggeri in aperta campagna, invece che al lavoro, regalando loro un tempo inaspettato e felice. Trascorsa una dozzina di minuti l’autobus era ripartito. Lei era rimasta imprigionata nelle pagine del libro che non esisteva, sospesa tra un punto e un a capo. Come un personaggio in cerca d’autore.
Questi tuoi personaggi in cerca d’autore, protagonisti di storie non scritte, attori di scena da girare, ancora da scrivere… Sono bellissimi. Perfettamente indefiniti, sfuocati. Sono in divenire, senza forma, puro sentire.
Insistono nella loro indecisione, e in quella dell’autore. Come se non volessero uscire dall’idea e farsi sostanza. Platone vince su Aristotele il primo tempo. Eraclito vince la partita. Sempre. (Di fatto in via Lambrakis era tutta una Grecia, e la Grecia è sempre un buon segno)
Lunatici, ottobre e i suoi figli.
La Luna, Saturno, Urano.
Chi vuole ci mette lo zampino. (a figli e figliastri)
Attenzione però, che Saturno mi risulta averli divorati, i figli (non so se previa distinzione dai figliastri)
… e mi sarebbe piaciuto continuare a leggere fino a novembre.
Ci proviamo
Ferma, nello spazio bianco aspettava un gesto, che fosse il tratto di una penna o il battere sui tasti. Osservava, in equilibrio, su quel filo che le sarebbe piaciuto essere un ponte, per poter camminare senza l’angoscia di precipitare. Ma come avrebbe potuto suggerirlo all’autore? Vedeva il mondo piccolo, il cielo vicino, poteva quasi toccare la luna, il mare e i prati sembravano di carta. Peccato che non sapesse disegnarli. Sull’autobus erano saliti gli studenti usciti da scuola, chiassosi e sorridenti, un altro giorno sui banchi terminato, uno in meno in quel conto alla rovescia diverso per ciascuno. Le due ragazze parlavano di latino da studiare, di frasi da tradurre. Guardando indietro, nella direzione del percorso già compiuto, si era riconosciuta in mezzo a tanti, con il dizionario sotto braccio, in attesa alla fermata, nello zaino un compito in classe andato né bene né male, cinque al sei, che era più di cinque e mezzo ma meno di sei meno. Un voto insignificante, che chiamavano incoraggiamento. Un po’ più avanti c’erano stati anche gli otto e il trionfo finale, la gloria di un giorno, ma lontano dai riflettori. Perché a lei non piace entrare nelle fotografie. Ma nei libri sì. Ci ha sempre creduto alle parole, alla magia di accostarle in modi inconsueti, al potere di sparire nelle pagine di una storia, alla capacità di creare un tempo che non esiste. E adesso si trovava proprio lì, in un giorno di ottobre, in una città che non conosceva, senza nome e senza ruolo, sull’autobus numero 4. Di certo sapeva che avrebbe dovuto scendere in piazza Gioberti, che l’avrebbe riconosciuta per la fontana. Che quello sarebbe stato un passo avanti sul filo, o sul ponte, un inizio, non ancora una storia.
Intravide la punta di una matita che scriveva una nota a margine.
“a novembre c’è sempre un giorno che è estate”
Sembrava una promessa. O il titolo di un capitolo.
Qualche minuto dopo camminava a passo spedito in una via del centro storico, trascinandosi dietro un trolley rosso.