E M I C R A N I A

E’ passata. Sfumata. Dissolta.

Il martello sulla tempia destra, come il batacchio di un campanaccio, pare abbia smesso di percuotere con insistenza.

Posso ricevere una carezza sulla guancia senza provare qualcosa che somiglia solo ad un fastidio.

L’emicrania.

Metafora del pensiero fisso che diventa ossessione.

E la via d’uscita non è l’analgesico, che mitiga il dolore, ma non cancella la causa.

L’emicrania è la radice del disagio, l’erba cattiva che infesta i pensieri e continua a crescere e a moltiplicarsi.

Pensare diventa dolore e le connessioni tra i pensieri diventano come spilli.

I ricordi sono fitte che intontiscono e non che resta che prendere la testa tra le mani e supplicare qualche dio che il dolore passi.

 

Avrei dovuto seguire l’istinto, il sesto senso, il maledetto intuito femminile.

Prevenire per non curare perché tanto non esiste cura.

 

L’emicrania.

Svanisce in un nulla, un nulla leggero.

Il dolore si è trasferito, ha maturato consapevolezza, si è incardinato nelle regole della memoria, in quel meccanismo che permette di chiuderlo in una scatola, e di chiudere la scatola in un cassetto, un cassetto degli infiniti cassetti della cassettiera dei ricordi.

 

[Una fotografia con un cucciolo bianco e nero. Un’agenda con tanti numeri di telefono fisso e senza prefisso. Un quaderno con una pera, l’ultimo diario, mai finito. Un lucchetto. Una cartolina del Book of Kells. Gli occhiali alla HarryPotter prima che inventassero HarryPotter e tutti gli altri occhiali di tutte le miopie. Schede telefoniche da cinquemilalire. Un accendino. Una scatola che è lì da chissà quanto. O solo da ieri. Non ha importanza.

Non ha più importanza.]