OMAHA BEACH

Così sull’altalena, avanti e indietro. Sempre più in alto e sempre più in basso e poi più in alto ancora. Una due tre trecento volte con gli occhi chiusi e con gli occhi aperti, guardando in alto oppure in basso. Ma le mani tengono strette le corde, dondolarsi fino al punto estremo è una vertigine con la cintura di sicurezza.

 

Non è una cosa che si insegna ai bambini.

 

Buttarsi dal punto più alto, staccando le mani e lanciandosi avanti, in un gesto goffo o acrobatico a seconda del fisico e dell’agilità.

Che si atterri poi è un dato di fatto, ché nulla (tranne i sogni) possono contrastare la gravità.

Ma l’importante è il volo e in quel momento tutto (o niente) può favorire un atterraggio morbido o uno schianto.

Il volo, quell’attimo, è vita pura, eternità di un secondo, è una sfida alla mortalità.

 

Poi si tocca terra.

 

E in un modo o nell’altro, sia con un salto perfettamente ammortizzato o con  le ginocchia rotte, il nostro teatro d’azione resta Omaha Beach.