Autodafé

Ci sono cose che scrivo a cui tengo particolarmente.

Magari non sono le migliori, magari non hanno quel quid che le rende speciali, o indimenticabili.

Ci sono cose che quando si scrivono sono come un risultato di un’operazione chirurgica (non matematica).

Sono parole che nascono sulla pelle, mi entrano dentro, mi circolano come sangue, a volte ristagnano in qualche organo vitale, lo comprimono, lo fiaccano, lo infiammano, o lo anestetizzano. Oppure lo fanno essere iperattivo, quasi a bruciarlo.

Poi avviene l’operazione. Lo strappo. O la dissoluzione.

Non è che poi si guarisca.

Non è una malattia.

Alla fine però queste parole vengono fuori, nel loro modo, per dire ciò che hanno da dire al mondo, per farsi ascoltare da tutti. Esse non hanno pretesa di essere comprese. Esse dicono liberamente e altrettanto liberamente desiderano essere ascoltate. Il loro modo è uno stile depurato. Faticosamente. Distillato.

Sono parole che sono passate attraverso un alambicco, goccia dopo goccia, seguendo un processo lento.

Sono sensazioni che parlano e le sensazioni hanno tutte le lingue del mondo per parlare.

La mia lingua vuol essere letta.

E quando dico letta voglio dire pronunciata. E’ un piccolo consiglio questo, non è la chiave di lettura. Non l’unica almeno.

Il resto, il messaggio, vorrei dire, è quasi secondario. Mi importa la sensazione. Come fare a spiegar meglio?

Dilemmi, parole ermetiche non mi appartengono, se non come meri espedienti per esprimere la sottile indeterminatezza di ciò che mi accade e che in qualche modo mi ispira.

Voglio dire che io mi lascio sfiorare, prima di immergermi dentro.

E quando mi immergo vivo. E non scrivo.

Ora posso dare sensazione diverse a chi mi legge. E’ il mio intento, compreso il provocare repulsione o la sensazione di sentirsi in una sala d’attesa di un centro d’igiene linguistico mentale. 

 

Però ecco, detto così, mi par proprio mi si dia della pazza. E la cosa mi provoca un certo fastidio.